venerdì 22 giugno 2018

Le pietre parlano

Le pietre parlano

Genova e Valpolcevera - Gli edifici si raccontano

Pubblichiamo i racconti ideati dalla classe III B; gli allievi hanno scritto brevi "biografie di luoghi" vicini e noti agli occhi di chi percorre la Valpolcevera e la nostra città. Un altro tassello di un'educazione al patrimonio culturale e paesaggistico che speriamo ci renda più sensibili a quanto c'è di bello intorno a noi. 
I testi sono stati ispirati dalla lettura di uno splendido libro illustrato di Roberto Piumini e Roberto Innocenti, Casa del tempo (La Margherita Edizioni), da cui vogliamo condividere questa citazione:
Quando si dice che le parole sono pietre, ci si riferisce alle parole violente. Ma se sono le pietre ad essere parole, e se sono le pietre-parole di una casa, non fanno nessuna violenza: al massimo la subiscono.
Mentre le parole-pietre sono lanciate, le pietre-parole sono stabili, fedeli: sono prodotti sapienti e pacifici delle mani umane.
Le parole-pietre colpiscono, distruggono. Le pietre-parole accolgono, ricordano. Le pietre-parole sono stabili, pacifiche, fedeli, accoglienti, testimoniali: sono, dunque, come le parole della poesia.

Il castello Foltzer



Correva l’anno 1860. Ricordo ancora perfettamente il giorno in cui il sindaco di Certosa venne a visitarmi per la prima volta. Ero emozionato più di lui all’idea di dover ospitare qualcuno all’interno delle mie mura. Erano circa quattro anni che aspettavo quel momento. La mia costruzione era iniziata nel 1856, in una delle vie più importanti dell’epoca per Certosa, via Jori, ed era terminata solo quattro anni più tardi a causa dei lavori troppo lenti, contando che la mia imponenza non era e non è nemmeno paragonabile a quella di alcuni castelli del centro storico, molto più grandi e maestosi. Comunque, per la piccola e periferica Val Polcevera la mia edificazione divenne un piccolo patrimonio artistico.
Gli occhi del sindaco mi osservavano, così piccoli di fronte alla mia grandezza, ma così attenti ad ogni minimo dettaglio che sembrava dovessero ispezionare l’abitazione di un delinquente, ma alla fine, fortunatamente, la sua espressione si rilassò e parve compiaciuto della nuova opera architettonica. Il problema è che quel sindaco non lo rividi mai più. E non perché la mia struttura rischiasse di crollare o perché fossi diventato inagibile, no, niente di tutto ciò accadde; semplicemente fu perché si era reso conto che non soddisfavo i suoi gusti.
Negli anni a venire venni utilizzato come casa da gioco, il che non mi piacque molto, perché ormai i miei corridoi, insieme all’atrio e alle stanze principali, non sembravano appartenere ad un castello, ma ad una ciminiera. Ogni sera, nobili, borghesi e gente comune si incontravano per scommettere numerosi soldi dietro un mazzo di carte o ad una roulette. Davanti al denaro, la classe sociale a cui si appartiene non ha alcuna importanza. I miei preziosi tappeti persiani sembravano inzuppati in un enorme recipiente contenente tutti i tipi di liquore, dalla birra più leggera, al whisky o alla vodka. Erano infatti più i bicchieri che finivano per terra, che quelli che giungevano alle bocche degli assetati, vista l’elevata presenza di alcolizzati. L'alcool era la sola cosa che accomunava tutti quegli uomini così poveri nell’animo.
Alcuni anni dopo le mie porte si aprirono per ospitare dei poveri orfanelli. Quello fu uno dei momenti più belli della mia esistenza. “Donare” le mie mura a chi ne aveva bisogno mi fece scoprire che esistevano realtà diverse rispetto a quelle che le mie finestre erano solite osservare. Bambini e bambine, ragazzi e ragazze, privi di una famiglia con il solo conforto di essere insieme e non da soli per le strade. A peggiorare la situazione si aggiungevano le tutrici, donne anziane, che provavano divertimento nel vederli lavorare tutto il giorno, approfittandosene del fatto che erano soli.
Arrivò il giorno in cui l’orfanotrofio divenne l’abitazione di un importante industriale a cui devo il mio nome, Emilio Foltzer. Possedeva un importante oleificio. Ricordo ancora che il mio giardino divenne un deposito per lo stoccaggio di fusti e barili. L’essenza dell’olio si era ormai impadronita delle mie mura. Mi avvolgeva in ogni angolo, dalle cantine più remote fino ad arrivare ai piani alti. Fu un periodo tranquillo, uno degli ultimi, prima di molto tempo.
Nel 1915 arrivò la regina del caos, la guerra. Davanti a me tutto stava cambiando: le strade, le persone e persino le case attorno a me sembravano diverse. La paura dell’avvenire aveva avvolto anche loro. I ragazzi che avevo visto crescere adesso indossavano le uniformi dell’esercito italiano e si incamminavano verso le montagne, con uno zaino sulle spalle e tanta angoscia nel cuore. Quella guerra in Italia causò circa un milione di morti, tra soldati e civili. Pochi furono i “miei” ragazzi che vidi tornare vivi.
Durante il fascismo divenni a malincuore la CASA DEL FASCIO.
Nel salone principale dominava un quadro raffigurante Mussolini, un po' oscurato dal fumo causato dalle sigarette consumate dai membri del partito nazifascista. Le riunioni svolte in quel salone erano davvero innumerevoli. Oltre all’imponente quadro del Duce, vi erano numerosi fogli sparsi qua e là su un tavolo di legno di quercia, riguardanti le future leggi razziali. Se solo avessi potuto li avrei bruciati, nascondendone persino le ceneri, perché nemmeno quelle sarebbero state degne di ricevere anche la più insignificante delle attenzioni. Ricordo ancora le immagini dei Balilla e delle Piccole Italiane per strada, che riflettevano sulle mie finestre. Il mondo sembrava aver perso i suoi colori.
Nel secondo dopoguerra, i quadri raffiguranti il Duce cedettero il posto a ritratti di Karl Marx. La bandiera rossa dominata dalla Falce e dal Martello ora sventolava animatamente al di fuori delle mie mura. Diventai così sede della sezione rivarolese del partito comunista. Se le mie pareti avessero potuto parlare ai cittadini di Certosa, li avrebbero sicuramente sorpresi le vicende dei partiti politici che avevo ospitato, per via della diversità dei loro ideali.
Negli anni Novanta arrivò per me il periodo più buio.
Ero ormai destinato al degrado: la vernice giallo-canarino che da sempre mi avvolgeva si staccava sempre di più, lasciando spazio ad un triste grigio con qualche venatura bianca. Le mie vecchie porte ormai non proteggevano più l'atrio dalle piogge e, lasciando entrare l’acqua piovana, andava diffondendosi lungo le pareti la muffa, col suo terribile colore verdognolo accompagnato da un fastidioso odore di marciume. Ero diventato invisibile.
Nel 1997 accadde però che il mantello apparentemente impercettibile che da tempo mi copriva, scomparve. Finalmente iniziarono le ristrutturazioni e io tornai a splendere come non mai. Nei primi anni del Duemila fui finalmente pronto per diventare una biblioteca.
Ora il profumo delle pagine dei libri mi invade in ogni singolo angolo, donando a tutti coloro che cercano un po’ di tranquillità un luogo in cui perdersi tra le pagine di un libro.
E così, ancora oggi, chi oltrepassa la mia porta si lascia alle spalle per qualche ora il mondo che lo circonda, accedendo invece al maestoso portone della lettura.

Chiara

Il campanile della chiesa di San Francesco a Bolzaneto




I rintocchi della mia campana accompagnano la comunità di Bolzaneto da diversi secoli.

Ho visto i contadini della collina di Murta lavorare la terra, le stalle con gli animali e le osterie dove si ritrovavano i lavoratori alla fine della giornata.

Dal Trecento, il secolo della mia costruzione, i frati suonano la mia campana che ha segnato le ore di contadini, lavandaie, stallieri. Essi erano orgogliosi della mia maestosità e del suono della mia campana, che si sentiva da Murta a Brasile.

Un giorno, poi, i frati sono stati costretti ad abbandonare tutto quanto per via delle leggi napoleoniche, e l’atmosfera è cambiata.

Non è stato un periodo facile, ero abituato alle preghiere quotidiane e ai cantici dei frati e mi sono ritrovato da solo, non più al centro della vita del paese.

Purtroppo ho visto anche tragedie, alluvioni che hanno fatto straripare il fiume Polcevera inondando la campagna e distruggendo il lavoro degli agricoltori.

Poi i frati sono tornati e con loro è ripresa l’attività della chiesa. E’ stato bello vedere rinascere il chiostro, con i suoi fiori, gli ulivi e il pozzo.

Ho visto l’evoluzione delle strade intorno a me, ho visto carri e cavalli passare e poi automobili e autobus sfrecciare. Persino il corso del fiume Polcevera è stato deviato per permettere la costruzione della ferrovia per portare i pendolari al lavoro.

Dopo centinaia di anni che i frati hanno guidato la comunità di Bolzaneto, li vedo nuovamente lasciare il mio convento, questa volta per decisioni ecclesiastiche. E’ di nuovo un duro colpo per me, ma questa volta non sono del tutto solo. Con me è rimasto un unico frate che ha deciso di continuare a occuparsi del convento e dei suoi parrocchiani.

Le mie campane possono continuare a suonare. Grazie all’attività di padre Renato e dei volontari si organizzano anche delle feste, con orchestre, balli, giochi e pranzi. Tanti bambini giocano ai miei piedi e non mi stancherò mai di sentire le loro grida di gioia e divertimento.

Sono nate tante associazioni in questo convento; se prima c’erano i frati a occuparsi dei bisognosi ora ci sono tanti volontari che si occupano delle persone meno fortunate che purtroppo spesso vengono a bussare alle mie porte.

Ho visto periodi bui e periodi di gioia e le mie campane hanno sempre suonato e continueranno a suonare.

Marta

Il lavatoio del Prione


Io, che vidi passare tante bugaixe, ricordo ancora il giorno prima che mi costruissero: ero ancora un progetto su un foglio che, dopo breve tempo, avrebbe dovuto prendere vita in piazza del Prione, a Bolzaneto.
Ricordo Maria, la prima anzianotta che portò vestiti, biancheria e lenzuola per strofinarli sopra la mia “schiena”. Mi ci dovevo ancora abituare. Sembrava quasi come se avessi una puntura d’insetto e Maria mi dovesse grattare dal prurito. Avevo un grandissimo recipiente dove scivolava l’acqua sporca insaponata. Ebbene sì...ero un trogolo! Sentivo fanciulle discutere di quando dovessero incontrarsi per lavare, forse per farsi compagnia una con l’altra.
Sicuramente cominciavo ad abituarmi, capendo quanto fossi importante per delle famiglie numerose; quasi mi sentivo un elemento essenziale delle loro vite.
Purtroppo capivo che la situazione cambiava di generazione in generazione. Alcune famiglie, le più ricche, si trasferivano in altre zone della Valpolcevera, oppure, situazione più frequente, la gente restava a Bolzaneto ma, quando iniziarono a costruire le prime lavatrici, compravano e utilizzavano quelle. Cominciava a svilupparsi sempre di più la tecnologia ed io risultavo inutile, fino ad arrivare al punto che, buttandomi giù, avrebbero costruito parcheggi.
Trovo molto strano e preoccupante il passaggio dallo stile di vita “campagnolo” a quello “urbano”. Forse avrebbe cambiato un pezzo di vita di qualcuno; e spezzato il cuore di ricordi.

Veronica

Una casa di Montanesi


Io sono una tipica casetta gialla, nella campagna di Montanesi, non molto distante dal passo dei Giovi. Qui trascorre le proprie estati la famiglia che mi ha costruito e tra le mie mura hanno vissuto almeno due sue generazioni.
Con il tempo mi sono ingrandita: da un piccolo garage negli anni ’50 quando la vita nelle campagne era meno facile di oggi, a una casa più confortevole, che è come sono oggi.
Mi trovo su una collina nel pieno verde, lungo la strada, davanti alla quale si espande un prato nel quale si alternano orti, alberi e fiori.
Sul mio piccolo terrazzino rosso, pieno di fiori e piccoli alberi, si ammira un bellissimo panorama: le verdi colline con paesini ovunque, sullo sfondo un piccolo scorcio di mare, e si intravvede anche il Santuario della Guardia.
Sono nata grazie a Gino, quando aveva circa venti anni, perché gli serviva un posto nel quale mettere la macchina vicino alla casa dei suoi genitori, Giuseppina chiamata “Pina”, e Luigi chiamato “Giggiu” , che abitavano dove oggi vivono Natalina e Ciso, gli “zii”.
Vicino a me c’era una casetta, dove Pina e Giggiu, curavano terreno e orti, avevano mucche, conigli e galline. Un piccolo agriturismo di quei tempi. Gino aiutava sempre i suoi genitori insieme alle sue tre sorelle. Verso gli anni ’60, Gino e suo padre decisero di ampliarmi finalmente in una vera casa! Non vedevo l’ora! Per costruirmi ci vollero circa cinque anni e io ne sono il risultato. In quegli anni Gino si fidanzò e si sposò con Maria e insieme andarono a vivere a Bolzaneto. Con il tempo e con qualche lavoretto di ristrutturazione sono diventata più confortevole e calda d’inverno, quindi tra le mie mura sono venuti a vivere Pina e Giggiu, ormai anziani.
Gino, nonostante il lavoro, la distanza e il fatto che stesse per avere una bimba che si sarebbe chiamata Anna, non perdeva occasione per venire da me e per aiutare i suoi genitori con piante, orti e animali. Infatti una caratteristica che mi contraddistingue dalle altre case è sempre stata la vegetazione tipica dell’Appennino Ligure: meli, ciliegi, viti….
Spero che questa ricchezza non si perda nelle generazioni, in futuro.
Il tempo passa e io sono ancora in piedi con l’aggiunta di due piccoli garage. Con il trascorrere del tempo vedo il passare delle generazioni: Pina e Giggiu mi hanno lasciato, ma nel frattempo è arrivato Marco, il marito di Anna, e poi la famiglia si è allargata con Laura, la loro bimba. Quando Laura era piccola, Anna e Marco, sono venuti a vivere qui anche con Maria e Gino.
Nonostante tutto, l’intera famiglia dovette tornare a Bolzaneto. E devo ammettere che mi mancava sentire la presenza di questa famiglia un po’ pazza!
Ma loro non mi hanno mai abbandonato, nonostante nel corso degli anni io abbia vissuto momenti difficili quando, per esempio, il ladri hanno rotto il mio muro e le mie finestre per due volte, oppure quando una frana, a causa dell’alluvione del 2014, aveva rotto il muro dietro di me, provocando un piccolo crollo. L’anno scorso Marco e Gino, con l’aiuto dei muratori, l’hanno rimesso a posto, anzi lo hanno costruito molto più moderno e sicuro.
Il tempo passa, la campagna cresce, insieme all’orto e ai fiori, nonostante se ne sia andata un’altra persona importante: Gino...
Ora purtroppo sarà tutto diverso. Nessuno verrà più su ogni giorno per controllare se è tutto a posto, nessuno correrà più prendere la palla che Laura e i suoi cugini mandavano nel bosco e nessuno farà più il vino nelle mie cantine come lui, ma sono sicura che continueranno a prendersi cura di me, tra le mie mura trascorreranno altre belle estati e fiori e alberi mi cresceranno intorno.
Sono stata una casa fortunata, perché questa famiglia mi ha trattato benissimo, spendendo molto tempo e molti soldi per me, e io non voglio deluderli, voglio rimanere intatta e in piedi ancora per molto tempo, sperando che conservino sempre queste abitudini familiari.

Laura

Villa Clorinda

Buongiorno a tutti. Io sono una vecchia casa del Settecento situata sulla collina di Murta.

Attorno a me, nel passare del tempo, sono cambiate molte cose.

Mentre mi stavano costruendo attorno a me vedevo gli architetti, i costruttori e i contadini che mi facevano iniziare a vedere il mondo. Ogni mattina mi aprivano gli occhi e sulla cittadina di Bolzaneto. Ho visto costruire, quando avevo già intorno ai duecento anni, la ferrovia e altre ville della collina.

Sono una delle ville più vecchie di Murta… appena costruita appartenevo alla famiglia dei Bonarota, infatti è da questa famiglia che deriva il mio primo nome, “PALAZZO BONAROTA”, ma dopo sono appartenuta anche ai Doria e ai Costa.

Intorno al 1800 la mia città fu coinvolta in una guerra. L’esercito austriaco, che sottomise la popolazione ligure, mi utilizzò come quartier generale. La mia terrazza fu utilizzata come appoggio per la loro carica di cannoni, che servivano proprio per distruggere la mia città, la mia quotidianità… e io non potevo fare niente! Murta venne distrutta e saccheggiata… tante persone morirono… vidi i miei “genitori” morire… Quegli anni sono stati i peggiori della mia lunga vita. Dopo circa un anno la mia città si ribellò a queste ingiustizie e cacciarono gli austriaci. Durante la ritirata gli austriaci continuarono a uccidere e saccheggiare nelle colline circostanti.

Dopo questo tremendo periodo le cose tornarono a splendere come prima e in anno in anno vedevo le nuove generazioni divertirsi… Ora io sono una villa con tre appartamenti e con il giardino privato, ma grazie ai miei nuovi abitanti continuo a splendere come allora.

Alicia

L'arco della Vittoria


Sono alto 2727 metri e mi chiamo Arco della Vittoria.
Alla mia decorazione ha collaborato Giovanni Prini, che era uno scultore molto bravo e aveva già raffigurato San Giorgio e lo Stemma di Genova.
Sono stato inaugurato il 31 Maggio 1931 da Vittorio Emanuele III. Sui lati dell’arco hanno raffigurato Benito Mussolini. Eravamo nel tempo del fascismo.
Io sono stato dedicato ai Genovesi caduti nel corso della Prima Guerra Mondiale.
La scelta di costruirmi è stata presa dal Comune di Genova. Il progetto, scelto tra molti, fu la bozza di Marcello Piacentini, che però venne modificata rendendo l’arco più semplice.

Riccardo

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